Dall’esordio quasi per caso alla straordinaria scalata fino al professionismo: la meravigliosa favola di Luca Candeo

Pubblicato da Matteo Lunardi il

Luca Candeo, classe 1983: un’ascesa vertiginosa dai campi di periferia alla Lega Pro

Secondo appuntamento della rubrica di interviste: oggi il focus è dedicato ad un’altra colonna portante della nostra sezione, Luca Candeo, che dopo aver mosso i primi passi nelle categorie giovanili si è reso protagonista di una scalata irresistibile fino alla Lega Pro.
«Sono entrato nella grande famiglia arbitrale l’11 dicembre del 2004 – rivela il diretto interessato, monselicense, classe 1983 – Un ingresso un po’ tardivo, perché di solito è consigliato farlo a 15/16 anni per avere margini di carriera. Io avevo già superato i 20 e ricordo di aver intrapreso quest’avventura in modo assolutamente casuale, grazie a qualche volantino visto qua e là e ad una chiacchierata con Michele Marconato, amico di mio fratello e compagno di sezione. Venivo da un ambiente completamente diverso, visto che giocavo a pallanuoto e che la mia disciplina principale era da sempre il nuoto. Il calcio è sempre stato una grande passione e l’avevo praticato da ragazzino senza particolari velleità. Il mondo arbitrale mi incuriosiva e nel giro di un anno e mezzo sono stato promosso a livello regionale. Normalmente il percorso sezionale si sviluppa in Giovanissimi, Allievi, Juniores, Terza e Seconda Categoria: la mia è stata una scalata piuttosto rapida, che mi ha portato ad arbitrare le categorie giovanili regionali e le gare di Eccellenza e Promozione».
L’ascesa di Luca è irresistibile e dopo tre anni e mezzo arriva un’ulteriore promozione alla CAI, il Comitato Arbitrale Interregionale.
«Si tratta della prima categoria nazionale, che si occupa di gestire la direzione delle partite italiane più complicate di Eccellenza e Promozione. Di solito vengono affidate ad un arbitro che viene da fuori regione e io venni designato per Vittoria-Ragusa, big-match siciliano che metteva di fronte le prime due della classifica. Nel luglio del 2011 mi hanno promosso in CAN D, dove sono rimasto due stagioni con cui ho conquistato il salto in Lega Pro: una soddisfazione enorme, frutto di sacrifici e duro lavoro. Lì si inizia a respirare un clima di vero professionismo, perché dirigi partite di un certo livello e cominci ad essere designato come quarto uomo in serie B o per arbitrare qualche amichevole di serie A. Inoltre entri pure nella Coppa Italia dei grandi, la Tim Cup, dove vieni mandato a dirigere alcune gare dei primi turni che si disputano a fine estate. Purtroppo, oltre alle gioie, sono arrivati pure i dolori: già al primo anno di serie C sono partito in ritardo per colpa di uno stiramento. Fortunatamente mi sono ripreso e a fine torneo mi hanno pure gratificato con il “Premio Nobile”, ambito riconoscimento riservato all’arbitro che si era maggiormente messo in luce in C/2. Di quella stagione ho un ricordo indelebile legato all’incontro con un grande maestro, che mi ha dato tantissimo sia nel calcio che nella vita: Stefano Farina. Dal secondo anno di C, purtroppo, è stato un calvario di infortuni: un’odissea interminabile, che mi ha compromesso la carriera fino al ritiro. Mi venne subito proposto di fare l’assistente in serie B: ci ho provato, ma al test di selezione uno strappo muscolare di diciotto centimetri mi ha convinto a dire basta».
Nel 2018 Luca entra a far parte del Comitato Regionale Veneto.
«Mi occupavo dei giovani arbitri dalla Prima Categoria all’Eccellenza, ma dopo un anno ho dato le dimissioni. Ho tre figli e gli impegni familiari, oltre logicamente a quelli di lavoro, rendevano troppo complicato dover uscire tutte le domeniche per ottemperare ai compiti istituzionali. Ad oggi sono responsabile di un polo atletico nazionale a Rovigo, dove ho due assistenti di serie A, un arbitro di serie A di calcio a 5 e un paio di assistenti di serie C: è un polo biomedico che si occupa della loro preparazione atletica. Inoltre continuo l’attività di osservatore sezionale, seguendo i giovani arbitri che magari passano dalla Juniores alla Terza Categoria».
Quali sono le partite che ti sono rimaste maggiormente nel cuore?
«Impossibile dimenticare quella dell’esordio assoluto, a Stanghella, in cui avevo come tutor Egidio Sacco, figura storica della nostra sezione. La stagione vissuta in CAI è stata qualcosa di straordinario: il big-match tra Vittoria e Ragusa, la finale della Coppa Italia calabra giocata ai mille all’ora fino ai tempi supplementari. In serie D ricordo un Cosenza-Messina e un Ancona-Sambenedettese. In C/2 Stefano Farina venne a vedermi in Cosenza-Chieti: saperlo in tribuna a visionarti e vederlo poi entrare in spogliatoio sono cose che ti segnano. Fu proprio lui, poche settimane dopo, a farmi debuttare in C/1 all’Atleti Azzurri d’Italia con l’AlbinoLeffe. E come dimenticare la semifinale di Coppa Italia Primavera tra Juventus e Lazio, le amichevoli di serie A con Napoli e Lazio, l’Under 21 italiana o lo stesso Torneo di Viareggio, altra esperienza meravigliosa per un arbitro».
Come consiglieresti, ad un giovane, di affacciarsi a questo mondo?
«Diventare arbitro ti fa crescere tantissimo sul piano umano. Parlo di esperienze di vita, di responsabilità, di sapersi arrangiare per essere indipendente in giro per l’Italia. A 22/23 anni parti con una borsa e vieni lanciato come una pallina da flipper: ti danno un biglietto aereo, ti dicono dove andare a dormire e poi tocca a te. Ai miei tempi i voli e gli hotel dovevi cercarli tu: sceglievi e partivi, per un ragazzino non è semplice. Arbitrando ti puoi togliere delle soddisfazioni incredibili: mai avrei pensato, facendo un corso a 20 anni, di prendermi tutte le gioie che l’Aia mi ha regalato. I calciatori sono i protagonisti assoluti e indiscussi del gioco: l’arbitro deve solo fare da “garante” per il rispetto delle regole, ma per riuscirci servono una preparazione tecnica e atletica di primissimo livello. Senza trascurare l’aspetto mentale: il calciatore è in un contesto-squadra mentre l’arbitro è da solo e spesso si trova a gestire, in una frazione di secondo, situazioni più grandi di lui. Basti pensare a cosa viene chiesto ad un ragazzo appena maggiorenne spedito in Seconda o Terza Categoria, dove deve sapersi imporre con dirigenti e atleti ben più vecchi di lui. Fare l’arbitro è una grande palestra di vita, perché ti porta a capire l’importanza di prendere una decisione difficile in pochissimi istanti: già prima di una gara sei consapevole che sbaglierai qualcosa, ma tutto questo rappresenta un incredibile bagaglio di crescita. In un certo senso è una metafora di ciò che succede nella vita: ci sono gli alti e i bassi, non bisogna esaltarsi troppo dopo una partita fatta bene o deprimersi quando le cose vanno male. Devi sempre trovare la forza di rialzarti».

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